Tutti i particolari sono riportati con una precisione quasi maniacale, da miniaturista, a volte, a cui non sfuggono né le vibrazioni che i mutamenti continui della luce apportano ai colori, né le incessanti variazioni delle superfici e dei volumi disegnati nello spazio dai mutamenti delle ombre che li accompagnano – quasi un desiderio di fermare l’aspetto irripetibile di un luogo del mondo nel momento irripetibile del tempo in cui chi l´osserva ne è parte. Il paesaggio è urbano, di queste nostre città di fine secolo, uniformate e devastate dall´aggressione del cemento e delle automobili, attraversate senza sosta da folle anonime sospinte quotidianamente lungo gli stessi tragitti da qualche urgenza indifferibile, da qualche irrinunciabile scadenza esterna. Ma né dei volti di questa folla, né dei risultati del suo incessante daffare, appare traccia nei paesaggi urbani che, sulla campitura bianca dei grandi fogli su cui Gabriella lavora, affiorano quasi come una proiezione del suo inconscio più che come l’esito di una puntigliosa osservazione oggettiva, o di una interpretazione soggettiva di ciò che osserva. La sua pittura consiste nella ricerca, condotta con la passione di un archeologo, di ciò che è ancora scampato al gran daffare di quella folla, di ciò che Milan Kundera ha definito la bellezza per errore: «Prima di scomparire definitivamente dal mondo, la bellezza esisterà ancora un poco per errore. La bellezza per errore è l´ultima fase della storia della bellezza. […] La possiamo incontrare solo quando i persecutori l´hanno dimenticata per errore da qualche parte. La bellezza è nascosta dietro i fondali della parata del primo maggio. Se la vogliamo trovare dobbiamo strappare la tela del fondale».
La tela di un fondale posticcio non è così resistente come una selva di colonne di cemento armato impiantate profondamente dentro la terra e puntellate tra loro. Gli interminabili flussi di coloro che si recano quotidianamente a innalzarle e puntellarle non sono la sfilata di popolo imposta una volta all´anno da un apparato statale repressivo, ma la somma di milioni di libere scelte, liberamente rinnovate ogni giorno nella convinzione di vivere nel migliore dei modi e dei mondi possibili. La storia ha strappato definitivamente i fondali di tela delle parate del primo maggio, ma ha moltiplicato quelli di pietra, che rendono sempre meno visibili i luoghi in cui la bellezza sopravvive soltanto perché vi è stata dimenticata per errore. Se negli acquerelli di Gabriella questi luoghi vengono riportati alla luce, non è perché tutto ciò che impedisce di vederli, dalle compatte barriere di automobili alle profanazioni urbanistiche, dal rumore agli urti della folla che sospinge chi si vorrebbe soffermare a guardare, venga da lei soggettivamente distrutto con un disperato atto di volontà interiore come nella celebre scena finale del film Zabriskie Point. Non ci sono valenze politiche nella sua ricerca artistica, né denunce di carattere storico. Il suo disagio di vivere in un mondo che va sempre più uniformandosi ai modelli imposti dal mito di un progresso che misura i suoi risultati solo in termini quantitativi e di potenza tecnologica, si può dedurre dalla pressoché totale assenza del presente nei suoi quadri, quasi una sorta di rimozione, un desiderio di annullare dal proprio orizzonte visivo qualcosa che tuttavia incombe, lasciando dappertutto i segni ineliminabili della sua sostanziale caducità e, paradossalmente, della duratura permanenza del suo essere stato: cumuli di macerie e cimiteri di automobili attorno a cui sopravvivono tenaci presenze di vita e di autonomia.
Nei suoi quadri Gabriella ricostruisce il suo mondo, trascegliendo e ricomponendo sopravvivenze e lacerti della bellezza per errore oltre il contesto spazio-temporale che la fagocita. Le forme e i luoghi in cui essa si manifesta si richiamano in un gioco sottile di e-vocazioni e si riunificano indipendentemente dalla loro collocazione reale, in una dimensione spazio-temporale nuova in cui gli interni si con-fondono con gli esterni, un unico sguardo riunifica molteplici punti di vista, le stratificazioni del passato affiorano nel presente e vi si sovrappongono senza annullarlo, differenti e lontane scansioni temporali si fondono sincronicamente in una. Non è un mondo ideale quello che lei ricrea, un rifugio per soli ed estranei, una nuova isola di Utopia. Non è un mondo sognato come contraltare di quello reale. Sono le proiezioni del suo mondo interiore, della sua storia personale e del suo coinvolgimento nella storia collettiva negli anni in cui le è capitato di vivere, del suo inconscio e degli archetipi dell´inconscio collettivo, che trasfigurano e caricano di significati simbolici una ricerca artistica solo apparentemente figurativa.
Un indizio significativo di questo intreccio tra la dimensione individuale e la partecipazione alla dimensione collettiva mi sembra che si possa leggere nel fatto che non è mai il paesaggio naturale a suscitare la sua attenzione. Sono, negli esterni, gli ambienti modificati e modellati dal lavoro degli uomini; negli interni, gli ambienti del lavoro degli uomini. Non è questa soltanto una conseguenza della sua formazione di architetto innestata sugli studi artistici. Non è soltanto il riflesso della manualità del muratore e del capomastro che sostanziano la cultura dell´architetto. È la focalizzazione dell´attenzione sul rapporto tra gli uomini e il mondo. È, certo, la contemplazione, l´osservazione con rispetto sacrale dell´altro da sé, che consente di coglierne la perfezione intrinseca e non soltanto di metterne in luce gli aspetti che possono suscitare l´interesse di chi osserva, ma è anche l´attività. È il pensiero che guida l´attività e se ne arricchisce, è la trasmissione e l´accumulazione generazionale delle conoscenze. È la capacità di riunificare in una visione globale il pensiero meditante e il pensiero calcolante, di conservare il passato senza rinunciare a vivere il presente, di ricomporre la frattura tra la ricerca del perché e la conoscenza del come si fa. Quella capacità, oggi perduta, di unire nel momento del fare la funzionalità con la ricerca estetica, che consente di porre non il fare sempre di più come fine del fare, ma la contemplazione di ciò che si è fatto come fine del fare bene.
Di tutto ciò parlano i quadri di Gabriella a chi non si lasci catturare soltanto dal fascino dei suoi paesaggi, dalla purezza delle linee e dall’equilibrio dei volumi che scandiscono gli spazi con l´armonia di una partitura musicale, dalle leggere velature di colore che materializzano sul foglio luoghi dove è incerto il confine tra il dentro e il fuori di sé, dove il linguaggio architettonico trova consonanze profonde con quello musicale e il colore del suono non è soltanto un´immagine, e un ritmo, una fuga, un crescendo, uno sfumato o un pianissimo si percepiscono quasi come armonizzazioni della fisicità del mondo per mano dell’uomo, e si rimane come stupefatti per non essere mai stati capaci di vedere nei luoghi reali che lei attraversa con la leggerezza di Mercurio, tutto quello che la sua arte riesce a coglierne e a farci cogliere.
Maurizio Pallante