Quando gli stranieri arrivano in Piemonte, da qualsiasi parte del mondo, la loro prima reazione è di stupore. Come, c’era una regione così bella in Italia e nessuno ce lo aveva mai detto? No, non glielo avevano detto. L’Italia ha già tanti itinerari raccomandati dai Baedeker, bisogna far correre i turisti da Venezia a Firenze, da Assisi a Pompei, giù giù fino a Taormina, nemmeno a noi viene in mente che il grand tour dovrebbe cominciare da Torino. La bellezza della nostra terra ce la siamo tenuta nascosta; la affidiamo, con parsimonia, solo a chi è in grado di scoprirla personalmente.
Non c’è solo il carattere del piemontese, montanaro, silenzioso, e magari un pochino rétro, dietro questo riserbo. E’ proprio la natura – e la storia – della regione che lo chiede. La bellezza del Piemonte non è esterna, vistosa, adatta a far brillare le pagine dei dépliant in quadricromia. E’ segreta, interiore, perfino nel disegno del paesaggio: dettato dalla progressione lentissima dei ghiacciai anziché dalle incursioni del vento nelle valli, o dalla furia sgretolante del mare sulle coste. Non è una bellezza fatta per essere ammirata dall’occhio, ma per essere capita dal cuore: deve catturarci senza un grido. Nel suo alternarsi di montagna e di pianura, di fondovalle e di lago, nell’inseguirsi instancabile delle colline, il Piemonte ha tutte le qualità per toccarci l’animo: solo se l’animo vuole essere toccato.
Nulla, in questa calcolata antologia della creazione, ci lascia stupefatti; tutto ci induce a riflettere, a guardarci dentro, in raccoglimento. Il mondo intorno è un invito al dialogo con noi stessi, la natura esiste perché noi possiamo ascoltarla, non per esserne soggiogati. Non è un caso che la sola assenza, nella geografia della regione, sia il mare. Il suo fascino sarebbe tanto imperioso quanto stonato, per il nostro codice mentale; la sua immensità ci apparirebbe distraente e perfino lasciva. Il mare per noi è un riflesso di cristalli, sogno di plenilunî, fantasticheria d’infanzia sull’aia, come nel memorabile racconto di Pavese, dove diventa mito: tanto necessario quanto irraggiungibile. Il nostro mondo è terroso, rupestre, da misurare con l’aratro, da conquistare con la piccozza.
Non sappiamo se Gabriella Arduino abbia voluto seguire questa intuizione, quando ha preso a dipingere il suo Piemonte. Certamente l’ha messa in opera, nei suoi quadri: dove prevalgono visioni raccorciate, prospettive di mattoni rustici, ritrovate in un album di memorie domestiche, sfuggenti alla tentazione dell’assoluto. Sono scorci di paese, quinte di periferia cittadina, incroci di campanili e di vigneti, avari caleidoscopi di mobili da salotto e bric-à-brac da mercatino dell’usato.
Gabriella Arduino sa benissimo, come tutti noi, che il Piemonte ha una sua grandezza, anzi, una sua maestà profonda. Ci è stata data dalle origini, fin da quando questa terra si è posata ai piedi delle Alpi e ha dato vita al ‹‹pais dij montagnard /pais d’òmini dur e tut d’un tòch››, come scriveva Cesare Balbo. Da Torino, in un mattino di luce, guardiamo la cerchia dei monti, e respiriamo universo. Ma non possiamo vivere di maestà. Forse per questo il cielo ci risparmia una vista così gloriosa tutti i giorni e ce la copre tante volte con la nebbia. Noi stessi siamo riusciti a nascondercela con le nostre mani, creandoci la barriera dello smog.
La nostra arte, la nostra poesia, perfino il nostro pensiero nascono su uno sfondo che per la maggior parte dell’anno è velato; e i piemontesi cercano di abbassarne ulteriormente i colori per avvicinarsi alla sicurezza protettiva del grigio.
Non c’è lo splendore mediterraneo, nei tableaux subalpini di Gozzano come nei racconti di Pavese. Non c’è l’imponenza delle cattedrali gotiche nelle fortezze delle gole alpine, messe lì, dure e petrose, quasi spettrali nelle giornate di maltempo, a presidiare le valli. Si sentono nell’aria, anche quando nessuno canta, le note delle nostre canzoni: cadenzate, lente, da scandire sul passo del montanaro, che deve risparmiare il fiato, su per la mulattiera. Gabriella Arduino porta nel proprio nome l’ala dell’angelo annunziante e la spada del guerriero. Ma sa che l’angelo deve flettere le ali, il guerriero trattenere l’arma nel fodero, mentre la pittrice spia la città da una finestra dove è appostato un gatto feriale, dissemina oggetti quotidiani su un terrazzo per attenuare le emozioni della campagna; o taglia con un cancello in primo piano la visione dell’isola lacustre, piega orizzontalmente il tronco di un albero che distrae dalla magnificenza del castello settecentesco.
I piani della realtà di confondono, gli esterni si fanno interni, come è necessario, se si vuole cogliere lo spirito di questa terra: il paesaggio entra in noi. Le Langhe cantate da tanti scrittori sono viste da una finestra del castello di Grinzane, dove le vigne del barolo si insinuano attraverso i tendaggi, irrompono fra i libri e le carte che furono di Cavour. Il meleto di Agliè diventa una popolazione di farfalle: spiegate sul davanzale, schiacciate nelle pagine di un libro, che si apre su una camera dove si intuiscono tutte le buone cose di pessimo gusto ereditate da nonna Speranza. Il ricetto di Candelo si sdoppia in due prospettive sogguardanti una nell’altra; dovrebbe dominarle al centro, senza riuscirci, la scritta Teatro Nazionale Cinema, semiestinta dall’opera degli anni, cui solo le mura e le torri medievali hanno saputo resistere. La piazza Castello di Torino sconvolge tutte le proprie geometrie, proiettata in una lunga fascia orizzontale dove la realtà è tanto più fantastica quanto più sembra fotografata nella esattezza dei suoi particolari, capovolti nelle invenzioni della memoria.
E come sarebbe possibile cogliere la verità del Piemonte senza tentare di andar oltre la sua apparenza? La olivettiana Ivrea, per tutta Italia polo della civiltà industriale più avanzata, difende un’anima arduinica, che ci parla di lotte fra vescovi e signori, nelle strette vie del centro storico intorno al duomo. L’erboristeria torinese di Rosa Serafino, dimenticata lì da 125 anni con i suoi barattoli di elicriso e cinnamomo negli scaffali ottocenteschi, sembra un anacronismo, nella città tecnologica; ma non si capirebbe piazza della Consolata senza i suoi profumi, che portano fin dentro il tempio una memoria viva di radici esotiche, di flora alpina, ad accompagnare le preghiere dei devoti.
La religiosità di questo paese, dalla tradizione culturale laica, sembra un inganno storico, ed è la controprova del suo reale. L’abbazia di Novalesa era data per morta da due secoli, dopo gli editti di Napoleone, le leggi Siccardi, la riduzione del monastero in colonia idroterapica. L’abbiamo vista risorgere nei nostri anni ’70, con il ritorno dei benedettini fra le mura altomedievali, dove Carlo Magno, in un inverno dell’ottavo secolo, progettò la conquista dell’Italia. Se ne sta lì, appartata da tutte le correnti di traffico, nella conca della Valcenischia dove solo il rumore delle cascate si alterna al canto gregoriano dei monaci, impegnati nello stesso ora et labora delle origini. Il Sacro Monte di Varallo difende su uno sperone della Valsesia le immagini della passione di Cristo, create da pittori che sapevano di affidare la loro arte alla più oscura, ma più certa fede del popolo. L’Isola di San Giulio, sul lago d’Orta, interrompe la serie delle ville e dei giardini per racchiudere i tesori negati al turista frettoloso in un convento di clarisse, la sfida più provocatoria ai sons et lumières del mondo circostante.
La bellezza è una parola che i piemontesi pronunciano sottovoce, nella versione dialettale che ne dimezza il suono, spegne verso il basso perfino la ‹‹ e ›› di blëssa. Bisogna cercarla nei luoghi romiti, leggerla nelle navate laterali delle chiese, scoprirla oltre i portoni mimetizzanti dei palazzi. Solo chi ha una lunga esperienza di Piemonte sa qual è la stagione, l’ora e il luogo per cogliere la magia naturalmente innaturale della risaia. Solo chi non si fa ingannare dai nomi trova la città ideale dell’urbanista su un dosso della Langa, dove un dimenticato Leonardo paesano ha saputo inventare la geometria aerea di Cherasco. E ci voleva l’ostinazione di un poeta come Pablo Neruda per scoprire nel centro di Alpignano, lui venuto dal fondo del Sud America, la tipografia miracolosa di Alberto Tallone.
Ma poi c’è l’eccezione che rovescia ogni regola, il prodigio dei prodigi, collocato dal genio medievale – perché fosse visibile da qualunque punto dell’orizzonte – in cima alla più strapiombante montagna. E’ la Sacra di San Michele (simbolo del Piemonte), all’imbocco della valle di Susa, il ‹‹ culmine vertiginosamente santo ›› di Clemente Rebora, che volle scrivere da una cella di quel monastero le ultime pagine della sua storia di poeta. E’ il monumento che sconvolge chi lo vede per la prima volta, venendo da lontano; e non cessa di sprigionare fascino, ogni giorno della vita, in chi lo conosce da sempre. La sacra come il Monviso, come il Rocciamelone, come le nostre cime più conturbanti. Ma soprattutto la Sacra come capolavoro dell’uomo, che si sposa al capolavoro della natura.
La pittrice che si chiama Gabriella Arduino ora deve proprio chiedere soccorso all’ala dell’angelo, per poter cogliere il mistero di quella costruzione; e alla spada del guerriero, per evocarne la storia. Guarda la Sacra dal basso in alto, rincorre le pietre verticalmente, in quel sovrapporsi ultra-umano di archi e volte, lungo spigoli metafisici, logge immateriali, su su, fin dove il cielo è più cielo, per sfiorare il biblico Michaël del ‹‹ Chi come Dio? ››.
Sono i carpentieri e i muratori delle nostre valli che hanno costruito quell’opera, mentre l’Europa attendeva la fine del primo millennio, fondando sulla roccia viva i grandi pilastri dell’abbazia. Sono loro a ricordarci oggi, con l’antica umiltà montanara, nel sottotono del nostro dialetto: ‹‹ Lassù è Piemonte››.
Giorgio Calcagno
Prefazione a Attimi di Piemonte, Priuli&Verlucca, 2000