E’ possibile realizzare la sezione, l’assonometria, la geometria di un sogno, di un fantasma della memoria? Oppure, mutando registro: è possibile coniugare la levità un poco decadentistica, un poco simbolista di profumo gozzaniano con le distorsioni spaziali alla Escher, in cui l’interno è esterno e viceversa?

Lo è nell’operazione altrettanto lucida quanto inquietante che traccia le sue trame alternativamente nette – quasi evocanti le carte di Dürer in viaggio dal Torolo a Venezia – e vaporosamente acidule sui fogli di Gabriella.

La cui divinità, non so se protettrice o ispiratrice, è certamente la dea Ambiguità: non altra può presiedere a questa oscillazione sullo stesso foglio (vibrazione, anche) fra il segno, la macchia, la marezzatura cangiante secondo il mestiere più elettamente tradizionale e il gioco di specchi e spazi di schietta ascendenza surreale.

Da un lato, la tradizione culturale peculiare dell’acquerello in quel di Piemonte mi fa evocare di fronte a questi fogli, con piena dignità, De Gubernatis o d’Andrade, con tutta la lucidità di un ‘800 illuminato sì, ma anche amante dell’intonaco un poco sbrecciato, del rampicante, dell’atrio muschioso, insomma del teatro o scenario della storia in cui rustico e nobile, romantico e barocco, luoghi vissuti e luoghi abbandonati sono tutt’uno.

Ma dall’altro, la mano che traccia questi cenari di tradizione, che insegue ed evoca questi luoghi “nascosti” e “minori” – dello stesso tipo e topografia di quelli ricercati e amati da un lucidissimo surrealfantastico come Italo Cremona, – trascrive con un suo particolare automatismo non so se un inconscio o una coscienza di secondo livello che frappone fra la pittrice e la realtà cancellate e scale che trivellano ellitticamente l’infinito, fantasmi d’infanzia con giostre e giocattoli, carrozzelle e bambole, incontri discronici fra microcimiteri di automobili e vecchi carretti.

Marco Rosci

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